Quale”vestito” per l’impresa sociale?

Le organizzazioni non-profit dovrebbero estendere le loro attività al micro-credito, al commercio equo e solidale e alle abitazioni per i ceti meno abbienti. La raccolta di capitali con il crowdfunding

di Walter Williams *
La riforma dell’impresa sociale è solo una parte di quella più complessiva del terzo settore (nella sostanza, un altro modo per definire la cd “economia sociale”), di cui da tempo si dibatte in Parlamento e che riguarda il volontariato, la cooperazione sociale, l’associazionismo non-profit, le fondazioni etc. L’obiettivo è introdurre misure per la costruzione di un rinnovato sistema che favorisca la partecipazione attiva e responsabile delle persone, singolarmente o in forma associata, per valorizzare il potenziale di crescita e occupazione insito nell’economia sociale e nelle attività svolte in questo settore, anche attraverso il riordino e l’armonizzazione di incentivi e strumenti di sostegno. Altra finalità è di uniformare e coordinare la disciplina della materia caratterizzata da un quadro normativo non omogeneo e non più adeguato alle mutate esigenze della società civile. Il potenziale da sviluppare è ancora grande. Per questo è importante che la legge-delega sia chiara negli indirizzi ed efficace nei meccanismi. Il suo risultato si misurerà sulla capacità di aumentare il ruolo diretto dei cittadini e delle organizzazioni sociali nella ricerca di soluzioni a problemi pubblici, non per sostituirsi allo Stato, ma per mobilitare più energie e risorse e quindi aumentare l’efficacia delle risposte.
E si parla di risorse – a scanso di equivoci – che non bisogna aspettarsi dalle esauste casse dello Stato, ma che vanno reperite mettendo in movimento a fini sociali una parte della ricchezza privata presente nel Paese. Si deve fugare, però, una volta per tutte il sospetto – alimentato anche di recente sulla stampa da un dibattito strumentale – che l’intenzione retrostante alla nuova legge in discussione consista nell’aprire al capitale le praterie del settore sociale, perché possa lanciarsi nelle sue scorribande speculative. Ma, quanti, in effetti, sanno che nel nostro ordinamento esiste la forma giuridica (peraltro non autonoma … ma come derivazione di forme classiche come le imprese cooperative o quelle di capitali?) dell’impresa sociale (istituita con il d.lgs. n. 155/2006), o comunque hanno chiaro in cosa debba differenziarsi da una qualsivoglia impresa – dell’identica forma giuridica – che opera nel mercato e in regime di concorrenza?
Perciò è importante eliminare ogni ambiguità, anche dalla legge-delega, sciogliendo alcuni nodi che la discussione degli scorsi mesi non è riuscita a risolvere, come emerge dalla proposta di un testo normativo che risente di un’impostazione non del tutto coerente. Due in particolare sono – a mio avviso – gli interventi necessari: da un lato va superata l’idea, tautologica e quindi inutile, che l’impresa sociale sia quella che produce un impatto sociale, dall’altro occorre smetterla di ricercare soluzioni che permettano alle imprese sociali di distribuire utili in una misura che le renda appetibili agli investitori.
Estendere il concetto di impresa sociale fino a sbiadirne il significato è una tentazione che va contrastata. Su questo la legge-delega farebbe bene a non lasciare nessun margine al dubbio. Dire che le imprese sono sociali in quanto producono un impatto sociale è una colossale banalità; messa così, quasi tutte le imprese – salvo l’industria delle armi, del tabacco, degli alcolici e pochissime altre – possono a buon diritto affermare che il loro impatto è sociale e al tempo stesso positivo. Prendiamo, piuttosto, un’altra strada, più semplice e trasparente. Per qualificare l’impresa come sociale, oltre alla finalità, conta il modo in cui è organizzata, gestita, governata e a cosa destina i propri profitti. Rovesciando l’approccio della finanza tradizionale, è sociale l’impresa che produce benefici sociali e, quindi, in cui il ritorno economico è funzionale a questa missione. L’obiettivo dell’impresa sociale non è – conseguentemente – massimizzare il profitto ma il ritorno sociale.
Per venire, poi, al secondo punto, credo che la questione di remunerare il capitale di chi investe nelle imprese sociali sia un problema mal posto. Intanto, perché chi cerca guadagni investendo nel sociale ha già a disposizione strumenti più garantiti e remunerativi, come ad esempio i cd “bond sociali”. Mentre l’accoglienza non esaltante che gli investitori italiani hanno riservato al venture capital dovrebbe rendere molto prudenti nel riproporre questo strumento nelle forme del social venture. Occorre che nel rapporto con l’economia sociale si abbandoni la logica del ritorno finanziario dell’investimento. Ne consegue che, in tema di distribuzione degli utili, la legge-delega non dovrebbe scostarsi da quanto già previsto per le cooperative sociali, limitandosi ad ampliare quel meccanismo (che li limita fortemente) a tutte le organizzazioni dell’economia sociale. Gli utili vanno interamente investiti nell’impresa sociale stessa ovvero ridistribuiti in misura minima, con percentuali che non lascino dubbi riguardo al fatto che l’obiettivo non è il ritorno finanziario. Basterebbe infatti il sospetto che gli investimenti nel sociale possano essere un’altra forma che la finanza sfrutta a vantaggio di pochi per decretarne il fallimento, oltre a compromettere una reputazione.
Su questo credo che il testo della legge-delega faccia bene a proporre il modello previsto, appunto, per la cooperazione sociale, così che sia chiara l’estraneità al terzo settore di ogni logica speculativa, ma al tempo stesso vi sia apertura al contributo che la cultura dell’impresa for-profit può portare in termini di managerialità e attenzione per la sostenibilità economica di progetti e iniziative.
L’economia sociale non va certo vista come una nuova area alla quale estendere le aspettative di rendimento di un’economia finanziarizzata. Deve avvenire invece l’opposto: le risorse finanziarie vanno portate dentro il terzo settore per incrementare l’impatto delle sue organizzazioni, per metterle in condizione di essere più incisive rispetto alle grandi questioni sociali. Le risorse finanziarie vanno messe a disposizione dell’economia sociale e non viceversa. Servono per sostenere progetti di rilievo nazionale, per creare più occupazione, per affrontare temi sempre più complessi. E il capitale investito nel sociale deve trovare il suo tornaconto non nei risultati di bilancio (ovviamente senza per questo legittimare perdite consistenti), ma nel miglioramento del clima sociale e del contesto pubblico da cui dipende la stessa prosperità delle imprese e della comunità.
Certamente servono risorse di provenienza privata per sostenere lo sviluppo, che però siano messe a disposizione senza altro interesse che quello per lo sviluppo sociale, senza aspettarsi in cambio (oltre a un legittimo, specifico trattamento fiscale) nient’altro che un contributo alla crescita di questo Paese e al miglioramento della propria reputazione e rendendosi conto che anche questo è un modo per ricavare un beneficio dal proprio investimento. Qui più che i dividendi del capitale contano i contributi a rendere più accogliente (e magari più giusta) la società in cui viviamo e lavoriamo.
Quanto alla questione della patrimonializzazione dell’impresa sociale, piuttosto, in una logica di ottimizzazione della governance, può essere proficuo – come previsto dal modello introdotto per incentivare la nascita di nuove imprese (cd start-up) – consentire la creazione di categorie di soci con varietà di poteri amministrativi e/o patrimoniali. Questa soluzione può infatti permettere più facilmente l’intervento di sostegno dell’ente pubblico o privato interessato a “monitorare” e sostenere l’attività dell’impresa, evitando peraltro che tale interesse si trasformi in un controllo totale o oppressivo. Infine, e direi soprattutto, occorre aprire anche l’impresa sociale “ordinaria” al crowdfunding [dall’inglese crowd, folla e funding, finanziamento; in italiano: finanziamento collettivo, ndr] sulle orme di quanto statuito per le start-up. Si tratta di un fenomeno di “democratizzazione della finanza” che consente agli artefici di un progetto di sponsorizzarsi online, non solo per sostenere iniziative senza scopo di lucro, ma anche per la realizzazione di programmi imprenditoriali.
Si viene, così alla questione della forma giuridica più funzionale e coerente per la diffusione e il successo delle cd “imprese sociali”, per le cooperative (quelle vere, ovviamente) il discorso è facilmente comprensibile: basterebbe pensare a tutta la loro vasta tipologia, che si differenzia proprio per il tipo di bisogno (e conseguentemente di soggetti che costituiscono le rispettive basi sociali) al cui soddisfacimento sono finalizzate. E tutto ciò ha specifiche, legittime, conseguenze sul piano della redistribuzione della ricchezza creata e della governance interna.
Diversa cosa è “vincolare”, seppur volontariamente, forme giuridiche come le società di capitali, nate, disciplinate e tutelate (dal punto di vista degli interessi in gioco riconosciuti) per creare profitto e nelle quali è altrettanto logico e legittimo collegare il regime di governance al livello di rischio assunto da singoli soci, segnatamente attraverso la quantità di capitale proprio apportato.
Il legislatore del 2006 aveva immaginato per l’impresa sociale un’estrema indifferenza di forme: una volta fissati alcuni paletti che sancivano il carattere non-profit dell’ente, si poteva spaziare, secondo i “gusti”, da un’associazione a una Spa, passando per le società di persone, le Srl e le cooperative. Alla prova dei fatti, si è registrata un’obiettiva difficoltà dell’impresa sociale a svilupparsi pienamente, al di fuori della formula cooperativa, sia per la “concorrenza” di quest’ultima (molto più funzionale, duttile e collaudata, anche sul piano delle effettive motivazioni dei promotori), sia per l’inadeguatezza della leva fiscale prevista e sia per le “ruggini” che provengono da una forma giuridica, come quella, ad es., della società di capitali, e da una governance non pienamente adeguate (o adeguabili) alle finalità di un’impresa che vuol definirsi – ope legis – sociale.
In termini di riforma, si ritiene, alla fin fine, che ci sia spazio solo per una scelta “secca” a favore della Srl in forma semplificata, anche alla luce delle novità legislative che hanno investito questa figura, con la possibilità di costituzione a costo zero, ma anche in quanto modello dotato di ampia autonomia negoziale e una serie di deroghe di grande interesse, con specifico riguardo alle fonti di finanziamento.
Ovviamente l’adozione di questa forma di Srl comporterà un intervento modificativo del modello di base, in particolare sulla governance – con una maggiore attenzione ai profili partecipativi – sulla distribuzione degli utili e sulla destinazione degli avanzi, ferma restando la necessità di poter “approfittare” delle recenti regole agevolative. Ulteriori elementi di attenzione dovranno poi riguardare l’inclusione lavorativa dei soggetti svantaggiati, l’allargamento dell’oggetto sociale al micro-credito (sulla scia di quanto previsto per le cooperative), la leva fiscale.
Un’ultima considerazione: le esigenze sociali variano nel tempo e occorre quindi conferire a questi confini una certa elasticità, pena l’impossibilità di fare innovazione. Per fare qualche esempio, previsto del resto nelle ipotesi di riforma dell’impresa sociale, l’allargamento al micro-credito, al commercio equo e solidale, al settore abitativo (alloggio sociale) appaiono a dir poco doverosi, anche se, ad esempio in quest’ultimo caso, il non profit ha già collaudato un proprio modello di impresa sociale che, grazie allo strumento delle fondazioni, consente di separare e vincolare il tema del reperimento delle risorse finanziarie necessarie per la patrimonializzazione abitativa, nonché la sua gestione.

* Ricercatore CNEL

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